I produttori: "Da noi qualità al top, ci rovinano i disonesti". I ricarichi alla vendita sono enormi anche per le bottiglie "bugiarde"
LO CHIAMANO "l'oro liquido". O sua maestà olio extravergine. All'estero - da dove in molti casi proviene la "base" che lo compone, e qui sta il problema - venerano l'olio d'oliva italiano come una specie di nettare divino. Quanto sia autentico, lo vedremo tra poco. Ritornano in mente le vignette contro Maometto - con rispetto parlando - di fronte al polverone di polemiche provocato dai 15 disegni con cui il New York Times ha illustrato le truffe dell'extravergine in Italia e il "suicidio" - è la parola usata dall'autorevole quotidiano che ieri sera è silenziosamente tornato sui suoi passi - del frantoio "made in Italy"
Quanto è puro il nostro extravergine d'oliva? E, soprattutto, è davvero "italiano"? L'attacco frontale del entra nelle pieghe di un fenomeno che un'inchiesta di Repubblica portò alla luce alla fine del 2011. Se è vero che quando è di qualità l'olio ottenuto spremendo le olive nostrane è il migliore, o certamente tra i migliori del mondo, è altrettanto vero - ma occhio a non generalizzare - che sulla produzione e la commercializzazione dell'oro liquido "made in Italy" si allungano da qualche anno ampie zone d'ombra. In che cosa consistono?
Spagna, Grecia, Tunisia, Marocco. Sono i principali paesi dai quali importiamo olio. E quell'olio - lo hanno accertato in questi tre anni indagini giudiziarie concluse con massicci sequestri - in alcuni casi viene manipolato, miscelato e reimbottigliato in modo fraudolento. Mischiato con olio italiano. Corretto per lo più con beta-carotene (per mascherare il sapore) e clorofilla (per modificarne il colore). E venduto infine con etichetta "extravergine made in Italy". Olio di semi e olio di sansa sono le "basi" più utilizzate dai furbetti della tavola, per lo più sono imbottigliatori. Tecnicamente il vizietto si chiama adulterazione e contraffazione. È una scelta sleale alla quale ricorrono prevalentemente le aziende di grandi dimensioni. Sono loro che hanno in mano il mercato dell'olio di fascia medio-bassa. In alcuni casi si tratta di multinazionali straniere che hanno acquistato marchi italiani. Ma nella stessa fascia ci sono imprese di media portata che detengono marchi storici e molto noti.
"È una metastasi che danneggia il settore penalizzando i produttori onesti, un tutti contro tutti che ha finito per rendere tutti più poveri" - dice Pietro Sandali, direttore generale di Unaprol. Una metastasi che non si arresta. Un po' per le maglie larghe della legge in materia e un po' perché il business dell'olio, magagne comprese, è diventato un mare troppo grande.
"Abbiamo denunciato questa piaga in tempi non sospetti e per questo ci consideravano dei matti pericolosi che non avevano a cuore le sorti del settore - spiega Stefano Masini, responsabile consumi della Coldiretti - . Le lobby che proteggono l'agromafia, perché di questo stiamo parlando, ci hanno persino portato in tribunale. Pensavano di chiudere la partita così, di metterci a tacere. Poi sono arrivate le indagini, i sequestri, le tonnellate di olio che partivano per gli Stati Uniti e altri paesi con etichette "bugiarde".
Sofisticati sistemi di import-export. Tir che partono da nord Africa, Spagna, Grecia e, sbarcati nei porti italiani (Napoli, Gioia Tauro, Livorno, Ancona, Genova) raggiungono aziende lombarde, liguri, toscane. Qui, tipo stazione di rifornimento, svuotano olio straniero nei silos: quindi inizia il "trattamento", la trasformazione. Poi si passa all'etichettatura e alla vendita.
Con ricarichi abnormi. Se pensiamo che un chilo d'olio in Tunisia costa 0,23 centesimi e che il prezzo medio di un chilo di olio finto "made in Italy" è 3-4 euro, i taroccatori ci tirano su un mille per cento. Il Nafs del Corpo forestale dello Stato nel 2013 ne ha beccati 204 e ha appioppato sanzioni per quasi 5 milioni di euro. "La legge "salva olio" approvata a febbraio 2013 è stata ed è di straordinaria importanza - ragiona il vicecomandante Amedeo De Franceschi - . Ci ha consentito di utilizzare le intercettazione telefoniche e ambientali per i reati alimentari. Ha introdotto nuove misure di repressione e contrasto alle frodi, ma... ". La legge adesso c'è, è vero. Però non risulta pienamente applicata. La colpa? Più che l'inerzia della pubblica amministrazione può l'azione delle potenti lobby industriali.
Ma ragioniamo su un dato. Come mai a fronte dei 345 milioni di litri di olio d'oliva che esportiamo (anno 2013), ne importiamo 445 milioni di litri (nel 2011 sono state 470 mila)? Dove vanno le tonnellate di olio "in entrata"? L'Italia - numeri Coldiretti - è il secondo produttore mondiale di olio di oliva dopo la Spagna: con le sue 250 milioni di piante cresciute su 1,2 milioni di ettari di terreno, nel 2013 ha prodotto 480mila tonnellate di olio. Ma l'Italia è anche il principale importatore mondiale. È dietro questo doppio record che si annidano le ombre. Il "suicidio" dell'olio italiano celebrato dalle vignette americane.
Partite di olio farlocco spuntano fuori dai container in partenza (lo scorso anno 110 milioni di litri sono stati esportati negli Stati Uniti, un calo del 13% rispetto a dodici mesi prima). O vengono prelevate direttamente nelle aziende. A dicembre 2013 i carabinieri dei Nac hanno scoperto un circuito che commercializzava olio contraffatto e privo di etichettatura: 14 tonnellate erano già pronte per inondare le tavole natalizie.
Due mesi prima al porto di Salerno i militari e i funzionari dell'Agenzia delle Dogane hanno bloccato una megapartita di olio di sansa diretto in Sud Africa. Lo spacciavano per extravergine e invece era olio greco o spagnolo "tagliato". A Siena l'Azienda Olearia Valpesana, 110 milioni di fatturato, rivendeva olio sfuso ad altre aziende imbottigliatrici: "100% italiano" era scritto sulle etichette. Era una miscela di olio vergine e olio lampante deodorato per eliminare i cattivi odori. E lo chiamavano "oro".
di PAOLO BERIZZI - tramite: repubblica.it
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