I meccanismi coinvolti, noti alla biologia molecolare, sono prevalentemente riconducibili a due tipi:
- la metilazione diretta di alcune sequenze specifiche di DNA
- modificazioni post-traduzionali della cromatina (struttura che forma il DNA avvolgendosi intorno agli istoni): queste includono ad esempio fosforilazione, ubiquitinazione, acetilazione degli istoni.
ku-xlargeLe possibilità offerte da questo settore di ricerca inducono due importanti considerazioni. La prima ammorbidisce molto il “determinismo genetico” aprendo alla possibilità che lo sviluppo, la vita e la salute umana possano dipendere anche da fattori ambientali, alimentari e secondo alcuni ricercatori “eretici” (Lipton, Rein, Garjajev) anche emozionali o mentali in grado di condizionare il genoma, o almeno la sua espressione. La seconda porta a considerare che queste “epi-mutazioni” siano in qualche modo ereditabili, cioè passino alle generazioni successive, o con le parole di David C. Baulacombe: “L’epigenetica si riferisce agli effetti ereditabili del genoma che sono separati dagli effetti delle sequenze nucleotidiche nel DNA. E’ un insieme di reazioni che, non alterando la struttura del DNA, possono influenzare, comunque, sia l’espressione genica ma anche e soprattutto ciò che viene trasmesso alle generazioni future.”
Questo dato, sebbene inizialmente creasse qualche resistenza ideologica (introduceva un modello “lamarckiano” piuttosto che darwiniano di evoluzione) è ora ampiamente dimostrato. Si contano ormai centinaia di processi in cui è accertata un’eredità epigenetica e questa svolge una funzione molto importante nell’evoluzione. I tratti epigenetici infatti possono svolgere un ruolo nell’adattamento a breve termine delle specie, consentendo una variabilità fenotipica reversibile: si tratta infatti di un adattamento che può essere facilmente perso nel giro di pochissime generazioni, se le condizioni ambientali lo richiedono.
Tuttavia è opportuno far notare che il solo modello “bio-molecolare” ( e riduzionista) dei meccanismi epigenetici non è in grado di spiegare la realtà dei fatti: ad esempio le cellule vegetali rimangono in buona parte totipotenti (possono ri-differenziarsi nel corso della vita riparando o rigenerando parti viventi, fenomeno pressoché inesistente nel mondo animale dove vige l’impossibilità di riparare un arto perduto, ad esempio). Ora, dato che le cellule vegetali impiegano gli stessi meccanismi epigenetici degli animali (modificazioni della cromatina) non si spiega affatto il perché di questa differenza per cui invece le cellule vegetali non abbiano la stessa “memoria” epigenetica, azzerando il proprio epigenoma ad ogni differenziazione cellulare. Del resto, come sostiene il biochimico inglese, R. Shaldrake i processi morfogenetici non posso essere assolutamente spiegati ricorrendo ad un paradigma genetico-riduzionistico. Evidentemente dobbiamo estendere questa considerazione anche all’epigenetica ( o meglio al suo stretto senso bio-molecolare materialistico).
Per semplificare: è notorio che gran parte delle metilazioni del DNA vengono perdute all’atto della riprogrammazione della cromatina che porta alla divisione cellulare. Soprattutto in fase di meiosi (formazione di cellule germinali, spermatozoi o ovuli) la cellula deve ritornare totipotente, cioè perdere ogni sovrastruttura epigenetica, questo vale per tutti i geni ad eccezioni di alcuni pochi geni presenti sul cromosoma che determina il sesso e che possono essere soggetti a “imprinting epigentico” paterno o materno. Con la sola eccezioni di questi vi è un totale “lavaggio” che de-programma il DNA facendo perdere ogni traccia registrata dall’epigenoma.
Come è possibile quindi che queste informazioni tornino a ripresentarsi nelle generazioni successive? Dove è rimane “scritta” questa memoria se di essa poco o niente resta a livello molecolare? e come mai il DNA torna a riacquisire le stesse modificazioni post-traduzionali dei genitori?
A mio avviso questo è uno dei casi in cui si applicano le osservazioni di Sheldrake circa i casi di memoria non affidata a molecole o strutture materiali. E’ qui necessario davvero secondo me far ricorso a quel concetto di campo morfogenetico, o campo di risonanza in cui è registrata l’esperienza evolutiva di una specie (ma anche di precisi domini molecolari). Anzi sono questi campi di memoria morfica ad orientare i processi di organizzazione spaziale (ad esempio le strutture terziarie delle proteine) sia della materia organica che in quella inorganica. Il concetto di campo morfico, per il suo significato, sembra ripresentare in altra veste il concetto di “forze eteriche” o forze plasmatrici eteriche (termine steineriano impiegato da Wachsmuth) che tanta importanza ha nella visione antroposofica della natura. Si tratta di forze extrasensibili e non materiali che orientano spazialmente i fenomeni sia biologici che minerali, soprattutto ne guidano i processi di acquisizione di forma, fatto del tutto inesplicato sulla base della semplice informazione genetica (non esistono geni della forma, eppure in natura troviamo frequentissima ad esempio la sezione aurea o i numeri di Fibonacci,senza che esistano geni che diano queste informazioni; del resto la presenza di queste configurazioni persino nel mondo minerale, esclude qualsiasi implicazione genetica).
Sia che si voglia parlare di Campi morfici (Sheldrake), sia che si parli di forze eteriche (antroposofia) o anche di onde di forma (come nella radionica) si è in presenza di concetti analoghi. Ritengo, cosa peraltro accettata da alcuni ricercatori ritenuti “eretici” (Sheldrake è uno scienziato), che si possa far ricorso a queste ipotesi di lavoro per spiegare un vasto spettro di processi naturali, spesso banali, ma del tutto inesplicati per la scienza ufficiale. E ritegno che alcuni meccanismi epigenetici siano ampiamente ascrivibili a questo dominio.
fonte: asclepiosalus.wordpress.com
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