Dagli spiedi in punta di spada dei cavalieri persiani ai kebabbari d’oggi. Storia e analisi di un piatto che, nel bene o nel male, ha invaso le nostre città e sedotto le nostre gole
Si fa presto a dire Kebab. Ma quanto sappiamo davvero del gomitolo di carne più famoso del mondo, a cui tutti almeno una volta abbiamo ceduto affamate attenzioni? La storia di questo piatto, economico e veloce da consumare (una sorta di analogo mediorientale dell’hamburger da fast food) è ricca di leggende. Il suo successo è tale da aver letteralmente invaso l’Europa e poi il mondo intero. Cerchiamo di capire cosa si nasconde dietro la sua diffusione che, specie negli ultimi anni, è dilagata per le città italiane
Una storia millenaria
L’etimologia, innanzitutto. Kebab deriva dall’arabo kabāb, termine con cui oggi si indica in modo generico la carne arrostita. L’origine della parola è però antichissima. La forma più arcaica risale alla radice semitica kbb (vecchia di 5 mila anni) riconducibile al significato di “ardere”, “splendere”, “bruciare”. Una curiosità? La stessa radice, nelle lingue semitiche posteriori, ha contribuito alla formazione del termine “stella”, che in arabo si pronuncia kawkab e in ebraico kokhav.
Secondo le ricostruzioni storico-gastronomiche del Cambridge History of World Food, la nascita del Kebab è da attribuire ad un’esigenza di risparmio energetico. Essendo il Medio Oriente caratterizzato da una certa scarsità di combustibile per il fuoco, cucinare la carne in piccoli pezzi risultava assai più veloce e conveniente. È così che nacque il Shis Kebab (dal turco Shis, “spiedo”) antenato del nostro rotolone: un semplice spiedino di carne di montone marinato cotto sulla brace. La tradizione araba fa risalire la pratica al Medioevo: pare che alcuni cavalieri Persiani arrostissero carne di montone utilizzando le loro spade. Ma attestazioni più antiche si possono leggere nel testo dell’ Iliade e scavi archeologici hanno dimostrano che i Greci erano affezionati a questo tipo di cottura fin dal XVII secolo a.C.
La nascita del Döner
Se è facile provare l’antica origine del Kebab orizzontale è più difficile risalire a quella dello spiedone verticale: il Döner (che in turco significa “rotante”). Leggenda vuole che ad inventarlo sia stato Iskender Efendi, cuoco originario di Bursa, 200 km a sud di Istambul. Nelle sue memorie, Efendi ricorda come nel 1870 decise di cuocere la carne in verticale affinché il grasso, sciogliendosi dall’alto verso il basso, rendesse lo spiedino più morbido. Ancora oggi un particolare tipo di Kebab confezionato con salsa di pomodoro e burro fritto prende il suo nome. Ma il primo a commercializzare il Kebab come cibo da asporto fu l’immigrato turco Mehmet Aygun, nel 1971 a Berlino. Aygun, che possedeva il ristorante Hasir nel multietnico quartiere di Kreuzberg, divenne famoso per aver fuso la tradizione turca alla velocità del cibo preparato dai fast food. Altri sostengono che il primo a mettere il Kebab all’interno di una pita fu Kadir Nurman, gestore di un ristorante vicino alla stazione di Zoologischer Garten. Notando la gran fame degli operai che ogni giorno prendevano il treno, Nurman decise di offrire loro uno spuntino calorico, facilmente trasportabile sul luogo di lavoro. A qualunque storia vogliate credere, l’era del Döner era appena incominciata.
Non fu facile traghettare il Kebab in terra teutonica. Il piatto era confinato ad una dimensione etnica e gli stessi kebabbari si rivolgevano quasi esclusivamente alla nutrita, ma limitata, popolazione tedesca di immigrazione turca. Fu probabilmente questo il segreto del suo successo. Piatto povero dal punto di vista economico ma ricco di gusto e apporto calorico, il Kebab divenne la più valida alternativa alle tradizionali catene di ristorazione fast food. Per farlo dovette però scendere a compromessi: l’originale montone con cui veniva preparato venne sostituito dalla carne di vitello, pollo o tacchino, più tenere e adatte ad un palato occidentale. Restò tuttavia il fascino della cucina orientale, che, con il passare degli anni, veniva riscoperta e rivalutata.
Tutti i numeri del Kebab
Oggi il mercato del Kebab registra numeri impressionanti e si è dotato di una struttura produttiva industriale che seleziona le carni, le pressa e le congela per spedirle anche a notevoli distanze. Secondo i dati dell’ Associazione dei produttori turchi di Döner, in Europa il rotolone grigliato genera ritorni economici per 5 miliardi di euro e dà lavoro a oltre 200 mila persone. Nella sola Germania, leader mondiale per produzione e commercializzazione, si confezionano 750 milioni di panini ogni anno e il settore vale qualcosa come 3,5 miliardi di euro, il 70% del mercato dell’Unione. Ogni giorno oltre 400 tonnellate di carne vengono confezionate e recapitate in tutta Europa. E in Italia? “Il mercato del Kebab è in fortissima espansione, ma è frammentato in una miriade di aziende personali, tanto che è difficile avere dati certi”, spiega Naser Ghazal, imprenditore di origine palestinese che nel 2001 in provincia di Treviso ha fondato Skk, il primo Kebab franchising della Penisola. “I kebabbari aprono e chiudono in continuazione perché è facile cominciare questa attività, ma difficile portarla avanti. Il futuro sarà dominato da catene medio-grandi che attorno al Kebab diversificano l’offerta”. E aggiunge: “La qualità sarà un altro dei fattori vincenti”.
Già. Perché se unanime è il successo commerciale, non tutti concordano sulle qualità alimentari di questo piatto mediorientale. Una delle poche indagini di carattere scientifico sul Döner risale ad una ricerca del 2009 condotta in Gran Bretagna dal Lacors, autorità locale che si occupa, fra le altre cose, di sicurezza alimentare. Dai dati raccolti su 500 campioni provenienti dai diversi stati della Union Jack, è risultato che i valori nutrizionali del rotolone di carne sono tutt’altro che equilibrati. Su una porzione media di 300 gr, l’apporto calorico di un Kebab è di circa 1000 kcal, pari al 50% della valore giornaliero raccomandato (Gda). E queste calorie sono mal distribuite: in media un panino farcito di Kebab fornisce l’89% della Gda di grassi (di cui il 148% di grassi saturi) e 98% della quantità di sale raccomandata. I dietisti inglesi hanno messo in luce che il vero problema del Kebab non è la sua pesantezza, quanto il fatto che sia considerato uno spuntino e venga spesso accompagnato da altri pasti durante l’arco della giornata. “È certamente un piatto sbilanciato su proteine e grassi, ma si tratta pur sempre di carne”, spiega la dietista Elisabetta Aloi, dell’ospedale San Lazzaro di Alba. “Sono le salse che aumentano le calorie in maniera esponenziale, specie quelle industriali a base di maionese, ricchissime di grassi dannosi per la salute”.
Igiene e sicurezza
Le salse sono sotto osservazione anche da parte di chi si occupa di sicurezza alimentare. “Può sembrare strano, ma il pericolo più grande del Kebab può derivare da una cattiva conservazione dei condimenti, precisa Piero Maimone, responsabile direttore medico per l’igiene degli Alimenti dell’Asl di Cuneo. “La carne è relativamente sicura e deve rispettare due parametri: temperatura e tempo”. Innanzitutto - spiega Maimone - la catena del freddo deve rimanere inalterata, -18 o dalla confezione al trasporto, dallo stoccaggio in magazzino allo spiedo arroventato. Una volta scongelato, il Kebab deve cuocere esternamente ad una temperatura di almeno 72 o, e dovrebbe essere consumato in giornata, per non consentire ad agenti patogeni di svilupparsi a temperatura ambiente: “Queste sono operazioni elementari, a cui ogni esercente è tenuto ad aderire e su cui i controlli sono più facili”, precisa Maimone. Le salse, spesso preparate in loco, sono ricche di acqua e proteine, veri e propri brodi di coltura batterica. “Se contaminate da mani o utensili sporchi presentano un rischio maggiore, è qui che deve misurarsi la capacità dell’operatore ad offrire un prodotto sicuro”. Maimone invita però a non dare giudizi affrettati: “ Se un kebabbaro vi pare poco pulito, ciò non significa che sia pericoloso. Non è il fattore estetico che conta, ma la capacità di abbattere i rischi di contaminazione dove occorre farlo”.
Alla ricerca del Döner perfetto
Ma come si prepara un Döner con i fiocchi? Nella stragrande maggioranza dei casi, essendo la carne preparata a livello industriale, sono altri i fattori che contano: “Verdure freschissime, pane o pita cotta sul momento e cipolla di Tropea”: questo è il segreto di Fanon Magdy, che a Sesto San Giovanni confeziona un dei migliori Döner dell’hinterland di Milano. La città meneghina offre infatti un Kebab abbastanza standardizzato, con gusti omologati e poca fantasia. Le eccezioni esistono: in via Borsieri, Euro Doner Kebab utilizza una gustosa pita cotta sul momento, Indian’s Snacks di Via Pollaiuolo avvolge la carne in pane naan – tipico di India e Pakistan – farcito al formaggio e alcuni kebabbari come Mekan in viale Troya, Meydan di via Pergolesi e Grill Kebab in Via Imbonati, confezionano il loro rotolo in maniera artigianale, fetta dopo fetta.
La città più innovativa d’Italia in fatto di Kebab è tuttavia Torino. La capitale sabauda è un laboratorio di sperimentazione e ricerca dove il rotolo turco incontra le cucine di altri paesi, contaminandosi. Il re dei Kebab qui è Horas, nel cuore di San Salvario: piadine e panini fatti sul momento, ingredienti freschi e lo speciale Kebab-Felafel con carne, polpette di ceci e mozzarella.
In alcuni negozietti di recente apertura, gestiti da africani, è possibile farcire il Kebab con ogni tipo di verdura, cruda o cotta: barbabietole, fagioli, mais, verza, cavolo rosso, carote e riso.
Uno degli esperimenti più particolari resta tuttavia il Kebabun (in piemontese «buon kebab») servito nei locali di Eataly. Inventato da Sergio Capaldo, titolare dell’azienda di carni La Granda con una passione per la gastronomia, è un Döner di sola razza piemontese, condito con sale integrale di Cervia e avvolto in una piada di grano romagnolo. “Quando ho tolto il coperchio al Kebab, mi sono accorto di cose che non mi piacevano”, racconta Capaldo. “La carne era prodotta in modo industriale, grassa, unita con collanti, il gusto alterato da una pesante marinatura speziata: tutto questo inganna il palato”. E conclude: “Volevo mantenere la tradizioni ottomane, ma riscoprirle attraverso la qualità delle carni piemontesi”. Esperimento riuscito? Non resta che operare un approfondito e gustosissimo confronto.
di Gabriele Pieroni - foto: Corbis
fonte: life.wired.it
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