Partiamo da una semplice domanda: se tutto ciò che abbiamo detto precedentemente fosse reale, come avverrebbe il fenomeno percettivo? Semplice (si fa per dire…): proprio come accade suonando un pianoforte, quando osserviamo qualcosa nel mondo alcune porzioni del nostro cervello risuonerebbero su determinate frequenze specifiche; in un certo senso la percezione accadrebbe premendo solo determinati tasti, che a loro volta andrebbero a stimolare le corde corrispondenti. Quelle prodotte, dunque, saranno informazioni sotto forma di onda (le note musicali) con determinate frequenze, lunghezza e fase (proprio come accade in quanto descritto dal teorema di Fourier) che risuoneranno nei neuroni del nostro cervello. I neuroni, poi, manderanno l’informazione relativa a queste frequenze ad un altro insieme di neuroni che trasformerà (sempre secondo il principio della trasformata di Fourier) tali risonanze descrivendo proprio l’immagine ottica così ottenuta al piano focale oculare. Un terzo insieme di neuroni, allora, costruirà alla fine l’immagine virtuale dell’oggetto, che apparirà a noi come un oggetto fuori nello spazio.
Questa operazione rifletterebbe, a ben vedere, una creazione in un mondo senza tempo e senza spazio di schemi di interferenza, un atto creativo in cui viene generato un oggetto in una dimensione spazio-temporale sulla superficie delle nostre retine.
In un’intervista del 1988 (si vedano le note a fondo pagina), Pribram disse di aver convogliato il modello qui delineato in una teoria, che chiamò Holonomic Brain Theory (teoria del cervello olonomico) e che scelse il termine “olonomico” per distinguerlo da quello “olografico” e sottolinearne così la connotazione olistica generale (holos deriva dal greco “intero”, “tutto”; nomos da “norma”, “legge”).
L’olografia offrì dunque a Pribram la rivoluzionaria intuizione che esistesse una relazione tra il dominio delle frequenze e quello delle immagini-oggetti di cui facciamo esperienza.
Le conseguenze di questo modello ricordano molto quanto emerso dai paradossi della meccanica quantistica: allo stesso modo infatti l’osservatore non può esistere indipendentemente dall’oggetto osservato, e allo stesso modo sembra totalmente inefficace permanere in una prospettiva dualistica che considera i due sistemi come separati.
Il modello olonomico del cervello renderebbe anche conto della vastità della memoria umana in quanto spiegherebbe come riusciamo ad immagazzinare così tante informazioni in uno spazio così ristretto. Come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, gli ologrammi possiedono infatti una straordinaria capacità di contenere dati semplicemente cambiando l’angolazione con cui due raggi laser colpiscono la lastra fotografica, rendendo così possibile accumulare miliardi di informazioni in un solo centimetro cubico di spazio. Ne conseguirebbe che un cervello che funziona secondo i principi dell’olografia non andrebbe a scartabellare nei meandri di un archivio mestico, perché ogni frammento di informazione sarebbe sempre istantaneamente correlato a tutti gli altri.
Il cervello userebbe quindi gli stessi principi dell’ologramma per convertire, codificare e decodificare frequenze (luminose, sonore etc.) ricevute attraverso i sensi. Tutto ciò farebbe perno sul fatto che il cervello non immagazzina informazioni in precise localizzazioni (come ha mostrato Lashley a proposito degli engrammi) ma le distribuirebbe su vaste aree nello spostamento concettuale da strutture a frequenze.
Diversi esperimenti della coppia di neurofisiologi De Valois dell’Università della California dimostrarono come, in effetti, numerose cellule del sistema visivo siano sintonizzate su determinate frequenze, e come queste stesse cellule nei gatti e nelle scimmie non rispondano alle stesse configurazioni ma a quelle di interferenza delle loro onde componenti. La stessa cosa fu mostrata da Fergus Campbell a Cambridge, il quale concluse che il sistema visivo debba essere sintonizzato su frequenze specifiche, in termini di trasformate di Fourier.
Un’ulteriore intuizione di Pribram riguarda la capacità del cervello di analizzare il movimento in termini di frequenze ondulatorie e di trasmettere queste configurazioni così ottenute al resto del corpo.
Egli venne a conoscenza, infatti, di alcuni studi del sovietico Bernstein, il quale analizzò in termini matematici i movimenti compiuti da alcuni attori vestiti con tute nere sulle quali erano state attaccate alcune strisce e punti bianchi per contraddistinguerne gli arti. Gli attori erano poi stati filmati mentre camminavano, correvano o danzavano su uno sfondo anch’esso nero, dopo di che i movimenti tracciati dai segni bianchi, che descrivevano sommandosi una configurazione continua ondulatoria, fu analizzata matematicamente.
Ebbene, il risultato confermerebbe le ipotesi precedenti: i movimenti analizzati potevano essere infatti formalmente rappresentati in termini di equazioni di Fourier, confermando di fatto la possibilità che il cervello comunichi con il resto del corpo con il linguaggio delle onde e delle loro configurazioni.
Al fine di dare supporto all’idea che la trasmissione avvenisse, a livello della corteccia motoria, nello stesso modo come nel sistema visivo – e quindi in modo compatibile con la teoria del cervello olonomico – Pribram mise a punto l’ennesimo esperimento con i gatti (questa volta senza sforbiciate ai loro cervelli…).
Egli registrò le frequenze della corteccia motoria del gatto mentre gli veniva fatta muovere passivamente la zampa destra anteriore in su e in giù, ottenendo così un movimento sinusoidale. Come osservato nella corteccia visiva, anche in questo caso le cellule del nucleo caudato e della corteccia sensomotoria della bestiola rispondevano selettivamente solo a un determinato range di frequenze di movimento.
A questo punto la domanda che si poneva era come potesse avvenire questa trasmissione di segnali in termini di frequenze ondulatorie, in che modo fosse possibile tale decodificazione e trasformazione di tutti i punti che vengono rivestiti dalla perturbazione ondulatoria (chiamata fronte d’onda). Pribram ipotizzò allora che la propagazione non avvenisse all’interno dei neuroni, ma attraverso le glia che li circonda, per mezzo della quale, quindi, verrebbero modulate e analizzate determinate frequenze.
È proprio a questo punto che avvenne l’incontro tra la neurofisiologia, le neuroscienze e la fisica quantistica. Proprio quando Pribram stava sviluppando l’idea che le proprietà ondulatorie e particellari osservate nella meccanica quantistica avrebbero potuto, in qualche modo, essere utili al fine di comprendere le natura dei microprocessi neurali, il fisico David Bohm venne a conoscenza del suo lavoro e lo invitò ad una conferenza a Londra.
In quel momento Bohm stava sviluppando una formulazione alternativa in fisica quantistica e nella teoria del campo che descrivesse il dualismo onda-particella e il fenomeno del non-localismo. Come si dice, un incontro che spunta a fagiolo.
La teoria di David Bohm – una di quelle teorie che mi fanno fare fatica a prendere sonno – implica l’esistenza di un ordine generale che contiene il tutto, quella che battezzò totalità ininterrotta (o totalità senza discontinuità).
Secondo Bohm, la convalida offerta da Aspect circa l’esistenza di legami di tipo non-locale tra le particelle subatomiche, forniva la prova che non esista una realtà in cui le sue componenti siano separate spazialmente. Bohm credeva infatti che ad un livello profondo della realtà, le particelle che comunicano istantaneamente tra loro non siano entità individuali, ma estensioni di uno stesso organismo fondamentale.
A questo livello, in cui il tutto è implicato in ogni sua parte, l’universo stesso non sarebbe altro che una sua proiezione, e per questo la più immediata analogia con questo ordine non può che essere il nostro ologramma.
Nel grosso calderone del tutto, il tempo e lo spazio non sarebbero più dei principi fondamentali (in accordo con le teorie di Einstein), ma una ulteriore proiezione di un sistema più profondo a livello del quale il presente, il futuro e il passato coesisterebbero in un’unica dimensione.
Visto che l’ologramma è un sistema statico, Bohm preferì utilizzare per descrivere l’ordine implicato il termine olomovimento, certamente più adatto a descriverne la sua natura dinamica, eternamente in attività.
All’interno della realtà oggettiva dell’universo fisico, in un livello non-locale esisterebbe un campo in cui ogni sua parte contiene tutte le altre, un enorme magazzino di informazione compenetrate. Ecco perché l’accostamento del modello cerebrale olografico di Pribram con la teoria di Bohm, offre una concezione tanto affascinante (quanto poco intuitiva) della realtà.
Grazie al loro incontro, i due studiosi insieme a Geoffrey Chew ed Henry Stapp, iniziarono a lavorare in gruppo per formulare una descrizione matematica che riflettesse tali fenomeni sia nella fisica subatomica che nei microprocessi cerebrali. Allo stesso tempo, dall’altra parte del mondo, il fisico giapponese Kunio Yasue si stava interessando al campo di ricerche sulla teoria probabilistica nella meccanica quantistica riprendendo gli studi di Bohm sull’argomento.
Fu proprio a questo punto che la psicologa Jibu chiese a Yasue cosa ne pensasse dell’idea di Pribram sull’olografia neuronale. Colpito da questi studi, subito si mise al lavoro per esprimere matematicamente tali processi cerebrali, mostrando alla fine come le reti di comunicazione dendritiche operino attraverso campi vibrazionali che si comportano in accordo con le proprietà osservate nel mondo quantistico.
Non è fantastico? la bella notizia è che – forse per la prima volta – campi di studio tanto diversi e affascinanti si siano incontrati, sul piano teorico, descrivendo la nostra “macchina umana” in termini affatto ordinari e in accordo con le più straordinarie conseguenze messe in luce dallo studio della meccanica quantistica. La brutta notizia è che anche questa notte faticherò ad addormentarmi. Certo è che tra pillola rossa e pillola azzurra, pillola rossa tutta la vita…😉
Alla prossima!
di Silvia Salese: spaziomente.wordpress.com
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