Gli studi di Pribram furono inaugurati da una domanda, che probabilmente molti di noi si sono fatti: dove avviene, esattamente, la percezione a livello cerebrale? Per tentare di rispondervi, Pribram si interessò agli studi di Karl Lashley, il padre fondatore della psicologia fisiologica nord-americana, volti alla comprensione della localizzazione degli engrammi, le tracce mnestiche depositarie dei contenuti informativi acquisiti. In pratica la sede della memoria, il nostro hard disk interno. Partendo dal principio secondo cui le funzioni psichiche fossero localizzabili, Lashley asportò una ad una le parti principali del cervello di alcuni topolini che avevano appreso un percorso complesso, fino a quando si accorse che perfino quando era stata danneggiata la maggior parte del cervello, deteriorato al punto da compromettere le loro abilità motorie, i topolini continuavano a ricordare il percorso. La memoria, quindi, sembrava essere distribuita in ogni parte del cervello, efficace ovunque nel medesimo modo.
Dapprima suo allievo e poi assistente, Pribram successe a Lashley nel ruolo di direttore agli Yerkes Laboratories of Primate Biology; successivamente si trasferì all’Università di Yale, dove studiò la funzione della corteccia frontale nelle scimmie e, insieme alla più generale organizzazione del cervello, la percezione e l’origine della consapevolezza umana.
Fu così che Pribram si concentrò sulla visione. Fino a quel momento la versione accettata e condivisa riguardo alla percezione visiva, voleva che essa avvenisse grazie alla messa a fuoco degli oggetti da parte del sistema sensoriale deputato a questo compito, riproducendone poi le caratteristiche a livello corticale ed inviando quindi l’informazione all’area visiva primaria. Lo abbiamo pensato tutti: a ben vedere, proprio come se avessimo una macchina fotografica interna che riproduce fedelmente le caratteristiche del mondo esterno di cui facciamo esperienza.
Ci sbagliavamo. Nemmeno questi esperimenti portarono a validi risultati, o almeno, non nella direzione attesa. Essi mostrarono infatti che si poteva danneggiare quasi completamente tutto il nervo ottico di un gatto senza interferire in modo evidente con la sua capacità di vedere ciò che stava facendo, i suoi movimenti e così via.
Con buona pace dei topi prima e dei gatti poi, gli esperimenti sulla visione – proprio come quelli sugli engrammi – mostrarono che basterebbe una piccola porzione rimasta inalterata del tratto ottico (come prima di tessuto cerebrale), per ricostruire l’informazione visiva (come prima la rievocazione della routine). Tutto questo chiaramente non è in accordo con quanto detto sulla macchina fotografica, che deve essere integra in ogni sua parte per poter fornire immagini chiare e complete.
Ecco allora che finire degli anni ’50 Pribram si imbatté in una serie di studi che indirizzarono verso nuove strade ed ipotesi le sue ricerche. In particolar modo fu colpito da alcuni articoli circa l’olografia ottica, una tecnologia allora emergente, e dalla particolare metafora sul funzionamento del cervello che essa offriva.
L’ologramma laser fu scoperto e messo a punto dall’ingegnere Dennis Gabor, il quale ricercava un modo per poter ottenere degli ingrandimenti dell’atomo. Questa scoperta gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1948.
Immagine tratta – e parzialmente modificata – da http://sdsu-physics.org |
Per farlo, basterà illuminare un suo qualsiasi punto (qualsiasi!) con un fascio di luce laser e… voilà! Potremo vivere il nostro Star Wars casalingo. Se ne deduce che ogni minuscola porzione della pellicola, e quindi dell’informazione codificata, contenga tutta l’immagine.
L’analogia tra questo sistema e il cervello fu proposta da Pribram dopo aver conosciuto lo stesso Gabor, e discusso insieme a lui della questione in termini matematici. La sua teoria, in pratica, descriverebbe l’effettiva capacità del cervello di leggere le informazioni, le quali si presentano sotto forma di onde, per poi convertirle in schemi di interferenza e trasformarle, proprio come nell’olografia, in immagini virtuali tridimensionali.
Questa tesi è esposta e sostenuta da vari calcoli ed esperimenti in Brain and Perception: Holonomy and Structure in Figural Processing, pubblicato nel 1991.
La matematica utilizzata da Gabor per la descrizione dell’olografia ottica si basa su una serie di equazioni di calcolo note come trasformate di Fourier.
Tali equazioni sono in grado di analizzare e descrivere qualsiasi schema come un insieme di oscillazioni regolari e periodiche, che differiscono tra loro solo nella frequenza, fase e ampiezza d’onda.
Qualsiasi immagine ottica può così essere tradotta e convertita in uno schema matematico di figure di interferenza, proprio in accordo con il teorema di Fourier: esso infatti dimostra che ogni oscillazione periodica di un’onda può essere sempre considerata come la somma di oscillazioni armoniche le cui frequenze sono tutte multiple, secondo numeri interi, della frequenza del moto periodico considerato.
Proprio come mostra l’olografia, ogni cosa che vediamo può a ben vedere essere descritta come particolari configurazioni ondulatorie, il tutto supportato e confermato da una base matematica. Ma non solo: un’altra caratteristica delle equazioni di Fourier è che permettono di utilizzarne le componenti che rappresentano le interazioni delle onde e usarle per ricostruire qualsiasi immagine.
Inoltre non bisogna dimenticare un altro interessante aspetto della questione: l’olografia rappresenta il trasferimento nel “dominio dello spettro” di qualcosa che noi percepiamo nel tempo e nello spazio; in altre parole, l’immagine virtuale è uno schema d’interferenza d’onda di qualcosa che viene in questo modo privato della sua dimensione spazio-temporale: a venire rappresentata sarà solo la sua natura ondulatoria, misurata quindi come forma di energia.
Il modello del cervello mutuato da Pribram grazie all’analogia con l’olografia è quindi essenzialmente una descrizione matematica dei processi e delle interazioni neuronali. La matematica che rende tutto questo possibile è la stessa di quella presa in considerazione da Gabor e di quella che prima di lui Hillman e Heisenberg adottarono per la descrizione degli eventi quantistici: fondamentalmente quindi, la matematica che descrive i processi cerebrali è la stessa di quella che descrive lo strano mondo delle particelle subatomiche.
Eccitante, non è vero? il seguito alla prossima puntata (insieme a Star Wars e Matrix naturalmente…).
Bibliografia:
Lashley K. S., in “The problem of cerebral organization in vision”, Biolgical Symposia, vol. VII, 1942. Citato da K. Pribram, Brain and Perception, 1992.
Lashley K. S., Meccanismi del cervello e intelligenza – Uno studio quantitativo di lesioni cerebrali, Milano, Angeli, 1979.
McCarty R. A. e Warrington E. K., Neuropsicologia clinica – Un’introduzione clinica, Milano, Raffaello Cortina, 1992.
McTaggart L., Il campo del punto zero, Forlì-Cesena, MacroEdizioni, 2003.
Ottolini R., “engramma”, in U. Galimberti (a cura di), Enciclopedia di Psicologia, Torino, Garzanti, 1992, 1999, pgg. 371-372.
Pribram K. H., Brain and Perception – Holonomy and Structure in Figural Processing, Hillsdale, Lawrence Erlbaum Associates, 1991.
di Silvia Salese: spaziomente.wordpress.com
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